Margherita Sarfatti: la madre ebrea del fascismo


LA MADRE EBREA DEL FASCISMO

Di Saviona Mane (2006)[1]

Tutti in Italia volevano dimenticare l’”altra donna del Duce”: i fascisti, perché era ebrea; i loro oppositori, perché era fascista; e la famiglia, perché diventò un imbarazzante fardello storico. Il risultato fu che la storia di Margherita Sarfatti scivolò via dai riflettori, insieme al ruolo centrale da essa avuto nel fascismo italiano e nella vita del Duce.

Oggi, più di 60 anni dopo che il dittatore fascista venne giustiziato, i discendenti della Sarfatti preferiscono considerarla come un’intellettuale e una mecenate, che lavorò affinché l’Italia prendesse le distanze dal pericolo nazista e che fu costretta a fuggire in Argentina quando Benito Mussolini attuò le leggi razziali. Non le hanno mai sentito parlare dei 20 anni in cui condivise la dottrina e il letto di Mussolini. O delle 1272 lettere che lui le scrisse in quegli anni, e che sono scomparse. No, non sono nel suo archivio privato nella sua casa al numero 18 di Via dei Villini a Roma. Almeno, questo è ciò che ha detto a Haaretz in un’intervista esclusiva sua nipote, Ippolita Gaetani, che cura l’archivio. Una cugina americana, che anch’essa si chiama Margherita Sarfatti, è convinta che le lettere siano in mano alla cugina di Roma.

Molti visitatori hanno suonato di recente al lussuoso palazzo di Roma – giornalisti, ricercatori, scrittori (“Notte italiana”, di Nicole Fabre, un romanzo di cui la Sarfatti è uno dei personaggi principali, è stato recentemente pubblicato in Francia). E’ un sontuoso palazzo patrizio color ocra, che dista tre minuti a piedi da Villa Torlonia, la residenza ufficiale del Duce – tre minuti dall’ingresso secondario della villa, va precisato. “La villa è stata restaurata”, dice una giovane donna sorridente che sta lavorando nel cortile, “ma può visitarla. Giri attorno dall'altra parte, ne vale la pena”.

Nella casa in Via dei Villini a Roma, un campanello dorato, un grande cancello nero, una doppia porta di legno, un ascensore in una gabbia di metallo lavorato, un’ampia scala di marmo. La porta è aperta da Ippolita Gaetani, una donna magra di 66 anni, dagli occhi azzurri e dai modi decisi, ponderati. L’appartamento è spazioso, assolato, e arredato con classica sobrietà. I documenti e le foto di nonna Margherita sono ospitati in una stanza, al centro della quale si trova il “Sancta sanctorum”: la scrivania della Sarfatti. Su una delle pareti c’è un famoso ritratto della Sarfatti con sua figlia Fiammetta, dipinto da Achille Funi. Vicino ad esso vi sono scaffali carichi dei suoi taccuini e diari, e un cassettone con dodici grandi cassetti.

Prima che l’intervista cominci, la nostra ospite riceve una telefonata. “Sono intervistata da un giornale israeliano”, si scusa, e aggiunge: “No, no, il giornale “buono”. Ippolita Gaetani e le sue due sorelle, Sancia e Margherita, sostengono la sinistra italiana e sono molto attive in favore della causa palestinese.

Ippolita aveva 21 anni quando sua nonna morì, nel 1961, all’età di 81 anni, ma non le chiese mai del suo passato, della sua storia con Mussolini o del suo ruolo nel movimento fascista. E la Sarfatti, ella dice, non ha mai fornito informazioni sull’argomento di sua iniziativa. Parlava di arte, recitava Dante, Shakespeare, Edgar Allan Poe e faceva parole crociate sul Figaro Litteraire. “Dopo la guerra ci fu una profonda rimozione collettiva, la gente cercava di dimenticare, non si vantava. C’era una sorta di auto-censura. La gente solo ora sta iniziando a parlare di quel periodo, e a anche di mia nonna”, dice la Gaetani.

Quando ha saputo del ruolo di sua nonna nella vita di Mussolini e nel fascismo italiano?

“Molto tardi, all’età di 17, 18 anni, e da amici. A casa non se ne parlava. C’era un fenomeno di rimozione in Italia. Di tutto veniva data la colpa ai tedeschi, tutto il male, le leggi razziali, le persecuzioni. Anche a casa mia, venivano incolpati solo i tedeschi. Quando crebbi e iniziai a leggere, capii che fascismo e nazismo erano intercambiabili. Mia madre non la pensava così – continuò a dire che il fascismo andò benissimo fino a quando non si unì a Hitler.

A mio parere, se allora fossero stati perseguitati i neri e non gli ebrei, molti ebrei sarebbero ancora fascistiIn realtà, oggi è la stessa cosa. Molti ebrei in Italia sono fascisti, perché il fascismo è molto più vicino all’Israele attuale; stanno perseguitando gli arabi. Se lei va oggi nel Ghetto di Roma, vedrà che una parte della comunità ebraica romana è veramente fascista, fascista nella sua mentalità, nella testa. E la situazione in Medio Oriente complica la faccenda. Accusano chiunque parli contro Israele di essere antisemita. E nella politica italiana sono molto più vicini alla destra che alla sinistra”.

Incontro con la storia

Sua madre, Fiammetta, si convertì al cristianesimo nel 1930 e rimase in Italia con la sua famiglia anche dopo che Margherita e suo figlio, Amedeo, andarono in esilio in Argentina in seguito all’attuazione delle leggi razziali. Ma la Sarfatti temeva per l’incolumità di sua figlia e dei suoi nipoti e, dopo che Roma venne occupata dai nazisti, utilizzò da lontano i pochi contatti che le erano rimasti dal tempo dei suoi giorni di gloria per assicurarsi che non venisse fatto loro alcun male. Così Fiammetta trovò ospitalità in un ospedale, travestita da infermiera; suo marito, Livio, che non era ebreo, entrò in clandestinità; e i loro figli vennero inviati in conventi cattolici. La sorella maggiore di Margherita, Nella Errera, non ebbe altrettanta fortuna. Lei e suo marito, Paolo, che negarono ufficialmente di essere ebrei, vennero arrestati nel 1944 dalle SS e mandati nel campo di Fossoli, e da lì ad Auschwitz. Morirono durante il viaggio.

Il caffé è pronto e la Gaetani lo versa in una tazzina.

Sua nonna parlava del passato o si sentiva responsabile per la morte della sorella?

“Non con me, non con noi, a casa era un argomento tabù. Può avere avuto dei rimorsi, ma o ti suicidi o decidi di vivere. Le persone convivono con le cose peggiori nella coscienza. Lei era molto coinvolta nell’arte – non è che danneggiò o denunciò qualcuno. Al contrario, qualche storico dice che finché rimase al suo fianco, Mussolini fece meno porcherie. Lei di suo non fece nulla di male a nessuno. Era il suo uomo che era feccia – su questo non c’è dubbio”.

La drammatica storia della vita di Margherita Sarfatti inizia con un’infanzia tranquilla e felice nel ghetto di Venezia, dove nacque l’8 Aprile del 1880: era la figlia più piccola di una famiglia ebraica religiosa e benestante, i Grassinis (il padre della scrittrice italiana Natalia Ginzburg era suo cugino). La bella bambina dai capelli rossi e dagli occhi verdi, e dalla curiosità insaziabile, crebbe in un ambiente protetto e circondato d’amore, specialmente da parte di sua nonna, Dolcetta Levi Nahmias, una “donna di valore”, nel senso ebraico del termine, da cui imparò a vivere nel presente e a non rifugiarsi nel passato.

“Oh, Dio”, mormorava ogni notte con una preghiera composta da lei stessa, “insegnami a essere felice e a ringraziarti per tutte le cose che mi hai donato”. Essere felice, a ogni costo: questo fu il motto che la mosse nel corso della sua vita. All’età di 18 anni, nonostante le obiezioni dei genitori, sposò Cesare Sarfatti, un avvocato ebreo e un socialista, che aveva 14 anni più di lei. I Sarfatti ebbero tre bambini: Roberto, Amedeo e Fiammetta.

Tuttavia, ella trovava la vita a Venezia troppo limitante, e anche suo marito era ansioso di cambiamenti. La coppia si trasferì nel centro nevralgico d’Italia – Milano. Lì Margherita iniziò a ritagliarsi uno spazio nell’elite intellettuale e a diventare attiva in campi che fino ad allora erano stati una prerogativa maschile: il giornalismo e l’arte. A tale scopo, apriva il suo salotto ogni mercoledì alle persone importanti della città e si guadagnò la reputazione di ospite impeccabile: bella, intelligente e vivace. La sua casa divenne il centro dell’avanguardia artistica, e in seguito del movimento “Novecento”. I più importanti artisti, scrittori e politici erano regolarmente suoi ospiti.

“Una sorta di fiuto mi spingeva verso le persone dotate”, scrisse nelle sue memorie, che sono davvero una collezione di episodi sui suoi incontri con importanti personaggi internazionali, inclusi l’inventore Guglielmo Marconi, Papa Pio X, il presidente Franklin Delano Roosevelt, Albert Einstein, e molti altri. Tra le sue frequentazioni vi furono anche Israel Zangwill, da lei definito il “Dickens ebreo”, e Zeev Jabotinsky, il leader revisionista sionista.

“Fu una donna colta, molto attenta alle mode culturali, una manipolatrice, ambiziosa e disinibita, con un singolare talento per l’auto-promozione (un talento che mostrò anche dopo che suo figlio morì nella prima guerra mondiale, appropriandosi della sua morte come ulteriore mezzo di auto-promozione)”, dice la storica Simona Urso, dell’Università di Padova, che ha scritto una biografia della Sarfatti.

Il suo drammatico incontro con la storia avvenne nel 1912, quando un giovane, rozzo e sconosciuto giornalista chiamato Benito Mussolini venne nominato redattore del giornale socialista L’Avanti, di cui la Sarfatti era critica d’arte. A 29 anni, era di tre anni più giovane della Sarfatti, ed era un ardente socialista venuto dalla provincia, un donnaiolo carismatico con il dono di tenere avvinti i propri ascoltatori con i suoi discorsi. La Sarfatti notò “un bagliore di fanatismo” nei suoi occhi e fu immediatamente sedotta dalla forza che emanava.


[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.haaretz.com/hasen/spages/735492.html