Come le Br diventarono atlantiche III

3. Un parà tra i rapitori del giudice[1][2]

I sospetti vennero sollevati per la prima volta nel giugno del 1976, quando il settimanale Tempo pubblicò un servizio sui retroscena del sequestro del giudice genovese Mario Sossi, rapito il 18 aprile del 1974, durante l’accesa campagna referendaria sul divorzio. Secondo il settimanale, nel corso del rapimento del magistrato, il capo del Sid Vito Miceli aveva organizzato una riunione con i suoi più stretti collaboratori per spiegare il piano che aveva ideato per liberare l’ostaggio: gli agenti segreti avrebbero dovuto a loro volta rapire Giovan Battista Lazagna, il partigiano che era stato coinvolto nelle indagini sui Gap di Feltrinelli, portarlo in una località isolata e costringerlo con ogni mezzo a confessare dove le Br tenevano prigioniero Sossi. L’elemento strano di tutta la vicenda era però rappresentato dal fatto che Lazagna era del tutto all’oscuro della vicenda del sequestro e, naturalmente, non poteva essere a conoscenza di nulla. Una circostanza che venne riferita al settimanale da un ufficiale del Sid che era stato presente alla riunione. «Lazagna, che non lo conosceva, non ci avrebbe mai potuto indicare il nascondiglio in cui era tenuto Sossi. Questo nascondiglio sarebbe stato invece “scoperto” da qualcuno che già lo conosceva. Una volta individuato, il covo sarebbe stato accerchiato e si sarebbe sparato. E dentro avrebbero trovato i cadaveri dei brigatisti, il cadavere di Sossi e il cadavere di Lazagna»[3].

Alle accuse gravissime contenute nel servizio faceva seguito un’intervista al generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’ufficio D del Sid, che parlò del vero volto delle Brigate rosse. «Nell’estate del 1975…avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio…sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili, anche per censo e cultura, e con programmi più cruenti…Questa nuova organizzazione partiva con il proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere…Arruolavano terroristi da tutte le parti, e i mandanti restavano nell’ombra, ma non direi che si potessero definire di “sinistra”»[4]. Le parole del generale sembravano proprio riferirsi a qualcosa che somiglia come una goccia d’acqua al misterioso e discusso Superclan, la strana struttura che aveva come punto di riferimento nella [sic] scuola di lingua Hyperion di Parigi. Alcuni giorni dopo l’intervista, il giornalista di Tempo Lino Jannuzzi convocò una conferenza stampa per sostenere che i brigatisti erano stati addestrati nella base di Capo Marrargiu, in particolare nella tecnica dell’attentato alle gambe[5].

Come tanti altri messaggi cifrati, anche quelle rivelazioni si sono dimostrate sostanzialmente veritiere e, dopo quasi quindici anni, sono emerse le prove della presenza degli agenti segreti nell’organizzazione terrorista. Persone la cui identità non era mai stata svelata e che, all’interno delle Br, hanno svolto ruoli ben più importanti di quelli affidati ai due infiltrati ufficiali, Silvano Girotto e Marco Pisetta, agenti provocatori che svolsero tutto sommato compiti marginali, nonostante a Girotto sia stato attribuito il totale merito dell’arresto di Curcio e Franceschini.

Una prima ammissione sulle massicce infiltrazioni verrà fatta dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell’ufficio D del Sid, che il 22 novembre 1990 deponendo in seduta segreta davanti alla commissione Stragi, parlerà degli uomini del suo reparto «inseriti all’interno delle Br». «L’onorevole Staiti di Cuddia delle Chiuse mi ha chiesto che cosa abbiamo fatto in materia di antiterrorismo come reparto D. Abbiamo seguito l’intera problematica del terrorismo in modo molto attento, ottenendo risultati o insuccessi come hanno fatto tutte le altre forze di polizia. Posso soltanto dire – ed è per questo che ho chiesto la seduta segreta perché vi sono uomini che potrebbero ancora pagare caro – che quando furono arrestati per la prima volta Franceschini e Curcio l’operazione era del servizio. Dopo la fuga dal carcere di Casal Monferrato di Curcio, protetto dalla moglie, egli fu arrestato una seconda volta a Milano insieme a Nadia Mantovani in via Maderno e tutta l’operazione di preparazione, ad eccezione della parte finale compiuta dai carabinieri, è stata condotta nel corso di svariati mesi dal reparto D il quale ha rischiato uomini e ha operato in maniera veramente eccellente. Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto; ed è per questo che è pervenuto a quei risultati. Se questa informazione verrà fuori molti uomini potranno correre pericoli»[6]. Gli uomini ai quali si riferiva il generale, ovviamente, non potevano essere né Girotto né tantomeno Pisetta. L’ex capo dell’ufficio D aveva fornito la prova di un’attività molto più profonda dei servizi dentro le Br che, come vedremo, era già stata rivelata, seppur di sfuggita, in un libro di memorie scritto nel 1988 dal generale dei carabinieri Vincenzo Morelli, esperto di terrorismo e, per un periodo, collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Anche durante l’operazione Sossi, dunque, i servizi segreti controllavano le mosse dei brigatisti, tanto da poter conoscere con esattezza il luogo dove il magistrato era tenuto prigioniero. Ma oltre a controllare, gli infiltrati cercavano anche di influenzare la strategia dei terroristi e di renderla il più possibile «omogenea» con altri interessi politici. E quando il meccanismo non procederà secondo i piani previsti, gli stessi servizi segreti non esiteranno ad arrestare i due capi storici delle Br, diventati un ostacolo per lo sviluppo cruento del terrorismo selettivo. Una decapitazione che coinciderà stranamente non con una crisi, ma con un rilancio delle Brigate rosse, che assumeranno sempre di più quella fisionomia disegnata dai teorici del Field manual.

Le indagini sul sequestro del giudice Sossi, nonostante le rivelazioni del 1976, non furono mai approfondite. Altrimenti i giudici avrebbero scoperto che nel gruppo brigatista che portò a compimento l’operazione, c’era anche una persona, il cui nome non è mai comparso nel corso delle inchieste sul terrorismo rosso, che sembra corrispondere a tutte le caratteristiche del «brigatista atlantico» descritte dal settimanale Tempo su suggerimento del generale Maletti. Il nome di battaglia di questo personaggio è «Rocco»[7], ex paracadutista, grande esperto di armi ed esplosivi, perfetto conoscitore della tecnica della gambizzazione[8].

Iscritto al Pci, proprietario di un negozio nell’hinterland milanese, «Rocco» era entrato in contatto con le Br nel 1971, poco tempo dopo l’operazione Pirelli-Lainate. E proprio durante la fase di approccio con i terroristi rossi, un puntuale attentato aveva distrutto la sua auto. Un curioso parallelismo con l’attestazione di «rivoluzionario» che ebbe Silvano Girotto, ripetutamente indicato in maniera strumentale come un pericolo pubblico dalle colonne del Candido diretto da Giorgio Pisanò perché fosse accreditato nell’ambiente dei terroristi.

Nelle Br «Rocco» non ha svolto un ruolo secondario, tanto da partecipare in maniera operativa a quella che venne considerata all’epoca la più grossa e clamorosa azione dei brigatisti. L’ex parà si era conquistata stima e considerazione per la sua ottima preparazione militare e per le capacità organizzative espresse. La sua iscrizione al Pci rappresentava poi una sorta di immunità dai sospetti che poteva suscitare un rivoluzionario con un passato da parà e buone conoscenze tra fascisti e funzionari di polizia. Del resto «Rocco» non aveva mai nascosto di essere stato un paracadutista, di essere stato addestrato in Toscana e in Sardegna e di essere introdotto, proprio per il suo passato militare, nei circoli della destra. Si offrì anche di andare per conto dell’organizzazione in un locale di Milano poco distante da piazza Piola, frequentato dai fascisti, a raccogliere informazioni. Esperto nell’uso del pugnale, assai abile nel maneggiare le pistole e nella tecnica del ferimento alle gambe, la sua specialità era quella di fabbricare le bombe avendo a disposizione poco esplosivo e utilizzando qualsiasi materiale. Proprio come sapeva fare benissimo il templare Pierlugi Ravasio, un altro ex paracadutista, addestrato a Capo Marrargiu, la cui figura comparirà nel corso dell’ultima inchiesta sul sequestro Moro. All’interno dell’organizzazione «Rocco» si era anche dimostrato particolarmente efficace nel saper trovare armi e munizioni. Alfredo Buonavita, quando si pentirà in carcere e comincerà a raccontare tutto quello che sapeva sulle Br, arrivato al sequestro Sossi «dimenticò» stranamente di fare il nome di «Rocco» e, per far corrispondere il numero dei brigatisti coinvolti con quanto accertato dalla magistratura, chiamò in causa anche Mario Moretti che, al contrario, era del tutto estraneo alla gestione materiale del sequestro, ma si era limitato a prendere parte alle riunioni dell’esecutivo che si svolgevano alla cascina Spiotta per discutere l’andamento politico e organizzativo dell’operazione.

Brigatisti strettamente sorvegliati

Il sostituto procuratore di Genova Mario Sossi, grande accusatore nel processo a carico dei componenti del gruppo XXIII ottobre, viene rapito alle 20.50 del 18 aprile 1974 davanti alla sua abitazione di via Forte dei Giuliani, mentre torna dall’ufficio. Un gruppo di sei brigatisti, tra cui «Rocco», lo aggredisce e lo carica a forza su un furgone, mentre due passanti che hanno assistito alla scena cercano di intervenire ma vengono allontanati sotto la minaccia delle pistole. I terroristi fuggono con l’ostaggio sul furgone e su una 127, senza sparare un solo colpo.

Chiamato «dottor manette», iscritto durante l’università al Fuan, l’organizzazione missina, i brigatisti erano convinti di aver catturato un simbolo di quel potere che loro volevano combattere. Racconterà Alberto Franceschini, uno degli ideatori dell’operazione: «Sossi era stato il pubblico ministero contro Mario Rossi e la banda XXII Ottobre, aveva chiesto e ottenuto l’ergastolo. Aveva diretto processi contro compagni, ordinato perquisizioni, era il giudice della ‘controrivoluzione’, del progetto delle destre di arrivare al golpe bianco. Avevamo individuato anche i protagonisti principali di questo grande progetto: i leader democristiani di allora, Fanfani, Andreotti, Taviani, ministro dell’Interno, genovese. Così Sossi andava bene anche per questo: lo vedevamo…come l’uomo di Taviani, l’uomo del grande progetto nella magistratura»[9]. Non c’è dubbio che l’«obbiettivo» Sossi fosse stato individuato autonomamente. Ma sia le fasi della preparazione che dell’esecuzione e infine della gestione del rapimento saranno strettamente sorvegliate da alcuni settori dei servizi segreti che lasceranno fare e, in qualche caso, si adopereranno perché il progetto brigatista non fosse troppo ostacolato. Lo stesso Mario Sossi, una volta liberato, diede l’impressione di essersi accorto dell’esistenza di questo meccanismo perverso.

Un episodio strano si veirificherà proprio la sera stessa di [sic] sequestro. La A 112 sulla quale Alberto Franceschini e Pietro Bertolazzi trasportavano l’ostaggio rinchiuso in un sacco alla «prigione del popolo» che si trovava a Tortona, era stata intercettata ad un posto di blocco dei carabinieri. Il percorso da Genova a Tortona era di circa 70 chilometri. I brigatisti avevano previsto che la sera del sequestro tutte le strade si sarebbero riempite di polizia e carabinieri e avevano deciso quindi di far precedere la A 112 con a bordo Mario Sossi da una 128 guidata da Margherita Cagol. «Mara» avrebbe dovuto segnalare con una ricetrasmittente legata allo specchietto retrovisore l’eventuale presenza di pattuglie. A metà percorso la moglie di Renato Curcio era stata fermata ad un posto di blocco e non aveva fatto in tempo ad avvertire i suoi compagni. Franceschini e Bertolazzi quindi si trovarono davanti ad un carabiniere che con la paletta aveva fatto loro cenno di accostarsi. Racconterà Franceschini: «Io rallento come per obbedire e poi accelero di colpo. Il carabiniere si butta di lato e dallo specchietto vedo la macchina di Mara[10] ferma: le stanno controllando i documenti…Mara l’hanno sicuramente arrestata: è difficile per lei spiegare il possesso di una ricetrasmittente»[11]. Margherita Cagol invece era stata incredibilmente lasciata andare.

Inquietante è anche un episodio che si era verificato il giorno precedente il sequestro. L’operazione doveva scattare esattamente 24 ore prima, ma nel giorno previsto Sossi, che era sempre stato puntuale all’uscita dal palazzo di giustizia e al ritorno a casa, per chissà quali motivi non era rientrato. Fu per questo che i brigatisti decisero di rimandare il sequestro e per non viaggiare con la A 112 imbottita di armi fino a Tortona, decisero di parcheggiare la macchina in un paesino poco distante dalla città, a Torriglia. Arrivarono nella piazza principale, scesero dalla A 112, lasciando le armi nel portabagagli, ripartendo sulla 128. Tornarono a prendere l’auto il giorno dopo. Ma nella notte, quella macchina parcheggiata lì da alcuni sconosciuti aveva suscitato la curiosità di qualche avventore dell’unico bar della piazzetta. Erano stati chiamati i carabinieri che dopo aver controllato l’auto non fecero nulla. Così la A 112 che sfondò il posto di blocco in cui era stata bloccata la Cagol, era quella già identificata dalle forze di polizia qualche ora prima.

Il rapimento del magistrato provocherà un’ondata di reazioni sdegnate, compresa quella dei lavoratori genovesi che sciopereranno in segno di protesta. Il Corriere della Sera parlò di «atto deliberato di provocazione»[12]; anche la sinistra sostenne la tesi dell’azione provocatoria per condizionare gli esiti del referendum sul divorzio. Titolerà il Manifesto: «I provocatori fascisti che hanno rapito Sossi minacciano di ucciderlo fingendo un ricatto politico. E’ la stessa mano della strage di stato che ora sfrutta la tensione del referendum»[13]. Il commento dell’Unità non sarà molto diverso, anche se conteneva alcuni elementi di analisi che in seguito risulteranno fondati. «Si vuole seminare il terrore per cercare di far passare come necessaria una soluzione tirannica. A ciò serve anche, non dimentichiamoci mai, la utilizzazione di sigle e di camuffamenti diversi: dalle Sam alle sedicenti Brigate rosse…Che le centrali provocatorie siano in azione è cosa nota. Che le sedicenti Brigate rosse saltino fuori nei momenti più delicati per favorire la reazione, è altrettanto evidente. Ciò che appare incredibile è che tutte le polizie italiane non riescano a fermare questi professionisti della provocazione. O vi è una macroscopica inefficienza oppure vi sono omertà e compiacenze ben gravi. Nessuno può credere sul serio alla “imprendibilità” delle sedicenti Brigate rosse»[14]. In effetti le Br erano tutt’altro che inafferrabili. Il Pci, però, allora non sembrava rendersi conto che il fenomeno brigatista era nato in maniera spontanea, anche se discretamente protetto e orientato da alcuni settori dello stato. La tecnica della provocazione era molto più sottile e conteneva anche margini di rischio. Tant’è che la liberazione di Sossi e le successive dure prese di posizione del giudice trasformarono l’operazione in una sconfitta, seppur momentanea, del potere atlantico. Una lezione che non verrà dimenticata quattro anni dopo, quando si farà in modo di non far tornare vivo Moro dalla prigione del popolo.

L’elemento anomalo del sequestro Sossi era stato proprio il giudice. Dopo essere rimasto praticamente muto per tre giorni, soprattutto per il grande spavento, il magistrato cominciò a parlare – raccontano i brigatisti – a manifestare un profondo rancore verso il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani e i dirigenti della polizia genovese oltre a un certo disamore anche verso i carabinieri, ai quali era legato soprattutto tramite l’amicizia con il capitano Luciano Seno, con il quale si esercitava nel tiro con la pistola. Nella prigione brigatista Sossi si sentiva abbandonato tanto da dire: «So che la mia vita, per lo Stato, non vale nulla. Però nella mia attività di magistrato mi sono capitate tra le mani inchieste particolarmente delicate che ho insabbiato per ordini superiori e di cui conosco bene gli estremi. Se ve le racconto e voi le rendete pubbliche forse riusciamo a salvarci tutti»[15]. Si parlò, tra carcerieri e giudice, di un traffico di armi e diamanti con una nazione africana che avveniva con la complicità del dirigente dell’ufficio politico della questura di Genova, Umberto Catalano e dei titolari dell’armeria Diana, Renzo Traverso e Giuseppe Lantieri[16]. Un traffico al quale non sarebbe stato estraneo lo stesso ministro Taviani. Quelle rivelazioni furono quasi subito rese pubbliche dalle Br. Avrebbero rappresentato il primo degli imprevisti dell’operazione. Subito dopo il rilascio e anche successivamente, Sossi smentirà con decisione di aver mai dato informazioni. Sosterrà, al contrario, che i brigatisti erano già a conoscenza di molte cose.

«L’ostaggio deve essere ucciso»

Secondo i brigatisti, nella prigione del popolo il giudice non si era limitato a raccontare di quel traffico, ma aveva anche parlato di due militanti di Lotta Continua che lavoravano per conto dell’ufficio politico della questura di Genova e non aveva risparmiato critiche feroci nei confronti dello stesso ministro dell’Interno, di Catalano e del procuratore Francesco Coco. Questa circostanza indusse i terroristi a cambiare in parte il programma. Racconterà sempre Franceschini: «Prima del sequestro avevamo discusso, con i compagni delle ‘forze regolari’, un porgramma di massima che prevedeva la richiesta di scambio tra Sossi e i compagni della XXII Ottobre e la eliminazione fisica del prigioniero se l’obbiettivo non fosse stato raggiunto. Il presupposto du questa nostra linea era la certezza che uno come Sossi, che avevamo visto spietato nelle sue vesti di pubblico ministero, non avrebbe mai collaborato»[17]. Il magistrato, invece, aveva anche insistito per scrivere un biglietto e chiedere al sostituto procuratore di turno di sospendere le ricerche: «Pregoti in assoluta autonomia, ordinare immediata sospensione ricerche, inutili et dannose. Stop»[18]. Quel messaggio, una volta recapitato, suscitò una polemica tra la polizia che avrebbe voluto proseguire le indagini e la magistratura che le bloccò. Il 30 aprile, dopo la ripresa delle ricerche della polizia, il magistrato fece arrivare alla famiglia un altro biglietto dai contenuti analoghi: «Non sono soltanto io responsabile dei miei errori. Ogni indagine e ricerca è dannosa»[19]. Sossi, intanto, continuava a rispondere alle domande dei suoi carcerieri.
«Brigatista – Dicci quello che vogliamo e poi…
Sossi – Ma io forse non mi sono spiegato. Voi pensate che io vi consideri degli aguzzini; vedo bene che mi trattate con cura, la sofferenza è più psicologica.
Brigatista – Pensa un po’ se tu fossi condannato all’ergastolo! Secondo te dovevano dare l’ergastolo a tutti e quattro i compagni della XXII Ottobre. Perché non hai dichiarato che l’ergastolo a Mario Rossi è ingiusto? Non lo hai mai detto. E’ giusto secondo te?
Sossi – Dovevo passare di qui per capire quanto sia afflittiva la detenzione»[20].
Mentre era in corso il sequestro, il 2 maggio le Br uscirono nuovamente allo scoperto. La mattina fecero un’irruzione nella sede torinese del Centro studi sturziani rubando registri ed elenchi; la stessa operazione venne ripetuta in serata a Milano, nella sede del Comitato di resistenza democratica, dove il segretario, Vincenzo Pagnozzi, fu costretto a consegnare i documenti. Fu quella un’azione molto più importante di quanto i brigatisti ritenessero. Durante la «perquisizione proletaria» i brigatisti si impossessarono dell’elenco degli amici di Edgardo Sogno, che proprio in quel periodo era in piena attività per preparare il golpe bianco della svolta presidenzialista. Una copia degli elenchi in seguito fu nascosta nel covo di Robbiano di Mediglia e venne ritrovata quando la base venne scoperta dai carabinieri; l’altra sarà ritrovata nella borsa di Alberto Franceschini il giorno del suo arresto. Poi i documenti rapinati al Crd di Milano – protestarono i brigatisti al processo – spariranno misteriosamente. Ma non sarà questo l’unico episodio strano di quelle perquisizioni: tra il materiale sottratto dalle Br a Torino c’era anche una lettera scritta il 30 dicembre 1973 dall’avvocato Giuseppe Calderon e indirizzata al presidente dei centri sturziani, Giuseppe Costamagna. Quella lettera verrà poi ritrovata nell’abitazione dello stretto collaboratore di Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, come se l’anticomunista fondatore di Pace e libertà avesse un canale privilegiato per intrattenere rapporti con le Br o con parte di loro[21].

Il giorno successivo alle due perquisizioni brigatiste, la Cassazione stabilì che le indagini sul sequestro del magistrato fossero affidate al tribunale di Torino e la questura di Genova offrì una taglia di 20 milioni per avere informazione [sic] sui rapitori di Sossi. Un’offerta generosa, dal momento che in alcuni settori dell’apparato di sicurezza si conosceva benissimo il luogo dove Sossi era tenuto sequestrato. Poi, alla mezzanotte del 4 maggio, il nuovo comunicato delle Br con la richiesta di scambiare il giudice con Mario Rossi, condannato all’ergastolo, e altri sette componenti della XXII Ottobre: Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Rinaldo Fiorani, Silvio Malagoli, Gino Piccardo, Cesare Maino e Aldo De Scisciolo[22]. Le Br avevano espresso un giudizio sul processo che si era concluso con una serie di condanne durissime per i componenti della banda: «Macchinazioni…progettate e messe in atto dalla polizia (Catalano-Nicoliello), dal nucleo investigativo dei carabinieri (Pensa), dai responsabili del Sid (Dall’Aglio-Saracino[23]) e coperte da una parte della magistratura (Coco-Castellano)»[24]. I prigionieri, era scritto nel comunicato, avrebbero dovuto essere trasferiti o in Corea del Nord o a Cuba o in Algeria. In realtà i brigatisti avevano già preso accordi con l’ambasciata cubana presso la Santa Sede che si era dichiarata disponibile a ricevere i detenuti liberati. La manovra fu poi bloccata in extremis dal Pci che convinse Fidel Castro a recedere dai suoi propositi permettendo anche un contratto per una fornitura di trattori[25].

La richiesta di scambiare gli ostaggi avrebbe provocato un terremoto e il paese e la classe politica si sarebbero divisi sull’opportunità di cedere o meno al ricatto. Il capo dell’ufficio politico della questura, Umberto Catalano, avrebbe atteso le 19 di domenica 5 maggio per rendere noto il testo del comunicato Br e la mattina successiva il ministro Taviani avrebbe dichiarato: «E’ assurda l’ipotesi di trattativa o patteggiamento con i criminali»[26]. Le polemiche erano già cominciate. Anche il procuratore generale Francesco Coco era del parere che la richiesta delle Br fosse inaccettabile. «Non presenterò mai un’istanza di libertà provvisoria per i detenuti della XXII Ottobre»[27]. Furono ore convulse: la moglie del magistrato, Grazia Sossi, invierà messaggi al papa e al presidente della Repubblica Giovanni Leone, mentre dal carcere brigatista continueranno ad arrivare i biglietti scritti dal magistrato: «Lo Stato che mi ha lasciato privo di tutela esponendomi a gravi rischi personali, ha ora il dovere di tutelarmi»[28]. Mario Sossi scriverà altri messaggi, finché il 17 maggio le Br lanceranno il loro ultimatum, minacciando di uccidere l’ostaggio se entro 48 ore i prigionieri della XXII Ottobre non fossero stati liberati: «Ci assumiamo tutte le responsabilità di fronte al movimento rivoluzionario affermando che, se entro 48 ore – a partire dalle ore 24 di sabato 18 maggio – non saranno liberati gli otto compagni della XXII Ottobre secondo le modalità del nostro comunicato numero 4, Mario Sossi verrà giustiziato»[29].

Proprio in quelle stesse ore il capo del Sid Vito Miceli aveva convocato la riunione per decidere l’azione di forza che, secondo quanto fu rivelato due anni dopo, sarebbe servita ad eliminare Sossi e i suoi carcerieri. Alcuni giorni prima il tenente colonnello Sandro Romagnoli aveva addirittura convocato nella sede del Sid i collaboratori fascisti Maurizio Degli Innocenti e Torquato Nicoli e aveva chiesto a quest’ultimo di attivare «Saetta» e dargli qualche notizia su Sossi. La situazione diventava di ora in ora più pesante; dalla prigione del popolo il magistrato aveva cominciato a comportarsi in maniera incontrollabile e l’operazione rischiava di trasformarsi in un’arma puntata contro la normalità atlantica.

Il «partito della morte» era entrato parallelamente in azione anche all’interno delle Br. I terroristi in quei giorni avevano cominciato a discutere animatamente tra di loro sul che fare. Dal loro punto di vista il sequestro si era dimostrato un successo politico e la liberazione di Sossi avrebbe comunque costituito una maniera per alimentare quelle che i brigatisti definivano contraddizioni del sistema. Due terroristi, invece, si battevano animatamente perché il giudice fosse giustiziato. Erano Mario Moretti e «Rocco». A loro giudizio le Br avrebbero semplicemente dovuto attuare quanto avevano proclamato nei loro comunicati. Una linea che sarebbe stata riproposta da Moretti durante il sequestro Moro. Racconterà Valerio Morucci nel suo memoriale consegnato a suor Teresilla Barillà: «Ciò che si era stabilito fin dal settembre-ottobre era che questa volta, se lo stato non avesse accondisceso alla richieste [sic] delle Brigate rosse, non si sarebbe ripetuto un caso Sossi e che quindi l’ostaggio sarebbe stato ucciso»[30].

Allo scadere dell’ultimatum le richieste dei brigatisti sembrarono essere accolte: la Corte d’assise d’Appello presieduta da Beniamino Vita aveva deciso di concedere la libertà provvisoria ai detenuti indicati e il nulla osta per il passaporto in cambio del rilascio di Sossi. Ma interverrà Coco che impugnerà la sentenza e presenterà ricorso in Cassazione mentre il presidente del Consiglio, Mariano Rumor, affermerà in parlamento che il governo non era disposto a rilasciare i passaporti per l’espatrio. Per ultime, il 23 maggio, le autorità cubane dichiareranno di non voler accogliere i detenuti della XXII Ottobre e negheranno anche ospitalità nell’ambasciata presso la Santa Sede. I brigatisti si consultarono ancora: la proposta di Mario Moretti e di «Rocco» di assassinare il sostituto procuratore venne respinta anche perché in base ad alcuni segnali raccolti all’esterno, i terroristi temevano che in quei giorni si potesse verificare un golpe fascista o bianco. Il giudice venne rilasciato a Milano dopo poche ore. Pieno di rancori, diffidente, sembrava un’altra persona. Dopo la sua liberazione scoppierà un secondo caso Sossi, alimentato anche dalle prese di posizione del giudice.

Il magistrato impazzito
Una volta libero, il magistrato comincerà a comportarsi in una maniera del tutto inusuale, come se temesse di poter essere ucciso, ma questa volta non per mano delle Br. Atteggiamenti che lasceranno pensare, e Sossi lo scriverà successivamente nel suo libro sul seuqestro in una forma più esplicita, che egli avesse avuto la netta sensazione che il sequestro potesse rientrare in un disegno più vasto, di cui i terroristi erano una componente in parte inconsapevole. Una sensazione non del tutto errata.

Quando il magistrato fu lasciato in un giardino pubblico di Milano, invece di rivolgersi immediatamente a polizia e carabinieri, decise di mantenere l’anonimato e di raggiungere in treno Genova. Anzi, già prima della liberazione aveva chiesto ai suoi rapitori di truccarlo per essere meno riconoscibile. Una volta a Genova, poi, Sossi non telefonerà a casa, sapendo di avere la linea sotto controllo, ma si rivolgerà ad un amico per essere accompagnato nella sua abitazione. Lì chiederà la protezione della Guardia di finanza. Dirà il magistrato nella sua prima intervista: «Un’indagine di quel tipo io l’avrei affidata alla Guardia di Finanza. Soprattutto perché questo corpo ha dimostrato, di recente, una efficienza e una delicatezza nell’inchiesta che altri non hanno avuto. Possedendo una preparazione che ritengo eccezionale, la Finanza avrebbe potuto portare avanti l’inchiesta in maniera diversa. Senza pericoli per nessuno, insomma, mentre di recente ci sono stati, al contrario, episodi molto discutibili, a questo proposito. Quello che è mancato è stato essenzialmente un lavoro di spionaggio, o se vogliamo di controspionaggio, che certo avrebbe portato a risultati utili senza mettere a repentaglio l’incolumità delle persone»[31]. Un palese atto di sfiducia verso le tradizionali forze dell’ordine, alimentato anche dalle dichiarazioni polemiche che il magistrato rilascerà nei giorni successivi e che provocheranno una irritata reazione dell’apparato istituzionale che lo accuserà di essere impazzito. La stessa cosa che sarebbe accaduta ad Aldo Moro. E di analogie tra i sequestro Sossi e il rapimento del presidente della Dc ve ne saranno molte, a partire dalla polemica sulla disponibilità dello stato a trattare per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Spiegherà il magistrato: «Di fronte al rifiuto per la mia vita ho avuto uno sconforto grandissimo ed un’immensa amarezza: io ho servito lo Stato per sedici anni giorno e notte, trascurando la famiglia, e pensavo di avere diritto a qualcosa di più. D’altra parte c’era già stato il precedente dei fedayn sorpresi a Fiumicino[32] con il razzo e rimessi in libertà senza tante storie per paura della rappresaglia dei loro compagni»[33]. La stessa vicenda che sarà ricordata da Moro durante la sua prigionia: «Anche in Italia la libertà è stata concessa con procedure appropriate a Palestinesi per parare gravi minacce di rappresaglia capace di rilevanti danni alla comunità…allora il principio era stato accettato»[34].

Dopo il suo rilascio Sossi aveva paura, ma «non certo delle Brigate rosse»[35]. Rileggendo la storia del suo sequestro si può immaginare a chi si riferisse. Più difficile capire l’origine di un inquietante riferimento, che si dimostrerà profetico, fatto dal giudice in un’intervista al Corriere della sera: «Hanno detto che Taviani mi voleva morto…Non posso né confermare né escludere. Certo è che non desideravo morire, e tanto meno per un governo di centrosinistra avviato al compromesso storico…mi sono convinto che se si fosse trattato di Moro avrebbero ugualmente detto: “ma sì! L’onorevole Moro è un soldato, si deve sacrificare”»[36]. Il «soldato» sarà puntualmente sacrificato nel giro di quattro anni, e solo tredici anni dopo la sua morte nelle inchieste giudiziarie si affacceranno i sospetti di una regia «parallela» durante i 55 giorni; quella stessa regia parallela che era in azione nel corso dell’operazione Sossi. Il giudice ripeterà i suoi dubbi un anno dopo l’assassinio di Aldo Moro. «Poiché sono assolutamente convinto del carattere artificioso della guerriglia rivoluzionaria nostrana, non ho il minimo dubbio nell’individuare gli strateghi di queste operazioni in agenti segreti di potenze straniere»[37].

Di messaggi e di accuse, dunque, il giudice Mario Sossi ne aveva lanciate molte. Contro il dirigente dell’ufficio politico della questura Catalano: «Avrebbe potuto comportarsi diversamente, ma questo discorso mi porterebbe su argomenti scottanti dei quali non posso parlare»[38]; contro il procuratore generale Coco che si era opposto alla scarcerazione dei detenuti della XXII Ottobre: «Avrei fatto l’impossibile per salvargli la vita, mobilitando tutte le forze per questo»[39]; parlando di alcuni documenti contenuti nella borsa che aveva con sé la sera del sequestro e che erano finiti nelle mani dei brigatisti: «Temo, soprattutto, quello che le Brigate rosse sanno. Intendiamoci, non per quello che ho detto io. Ci sono persone che hanno ragione di temere, in questo momento, e lo sanno benissimo, anche perché io glilo ho fatto sapere per mezzo di portavoce autorevoli. A questo proposito, però, non chiedetemi di più, perché non potrei rispondervi. Così come non vi posso dire molto della valigetta che avevo con me quando sono stato rapito e che non mi è stata restituita…dentro c’erano documenti…carte importanti, anche e specialmente dopo il furto avvenuto alla procura della Repubblica, relative a fatti già emersi o che potevano emergere»[40].

Il giudice Sossi sembrava essersi perfettamente reso conto di quanto era accaduto, forse perché, come sostenne il funzionario di Ps Umberto Catalano, intratteneva rapporti con il Sid: «Devono avere combinato delle cose assieme»[41]. Sossi aveva intuito che la sua vita era stata messa in pericolo, assai prima che la notizia del blitz organizzato dal Sid fosse nota. Dopo la liberazione aveva dimostrato di aver paura di polizia e carabinieri e si era detto sicuro dell’esistenza di «provocatori»: «Mi sono reso conto che certi atti che arrivano a noi magistrati sono diversi da come dovrebbero essere e noi non possiamo saperlo. Mi sono reso conto che ci sono contatti di vertice, che ci sono provocatori, che ci sono infiltrati di cui non sapremo mani niente»[42]. le indagini su quell’episodio saranno concluse senza che la vera storia del sequestro Sossi saltasse fuori.


[1] Antonio Cipriani, Gianni Cipriani, SOVRANITÀ LIMITATA – Storia dell’eversione atlantica in Italia, Edizioni Associate, Roma, 1991, pp. 212-225.
[2] I grassetti nel testo sono miei. A partire dalla nota 3, tranne la nota 7, le note sono quelle originali del libro.
[3] Tempo del 20 giugno 1976.
[4] Ibid.
[5] Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, cit., p. 248.
[6] Audizione del generale Giovanni Romeo, in Atti commissione Stragi.
[7] Nota di Andrea Carancini: negli anni successivi alla pubblicazione del libro da cui è tratto questo capitolo, il nome di “Rocco” è venuto fuori: si tratta di Francesco Marra (http://www.google.it/search?hl=it&q=francesco+marra+brigate&btnG=Cerca ).
[8] Sulla correttezza del neologismo gambizzare e i suoi derivati ci sono diverseopinioni. Adriano Sofri nel libro L’ombra di Moro (p. 180) ricorda che durante i lavori della commissione d’inchiesta, Raniero La Valle chiese di correggere il termine gambizzare con colpire alle gambe. Aggiunge Sofri: «Si dovrebbe andare in esilio da un paese in cui si dice (e si fa) gambizzare». In realtà, al di là delle condivisibili obiezioni di gusto, non si tratta di un barbarismo ma di un termine ormai comunemente accettato dalla lingua italiana. Cfr. Zanichelli, Dizionario etimologico della lingua italiana: «Gambizzare: ferire alle gambe con un’arma da fuoco il presunto avversario in un’azione terroristica».
[9] Alberto Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 86.
[10] Mara era il nome di battaglia di Margherita Cagol.
[11] Franceschini, Mara, Renato e io, cit., pp. 90-91.
[12] Corriere della Sera, 21 aprile 1974.
[13] Citato in Remigio Cavedon, Le sinistre e il terrorismo, cit., p. 135.
[14] L’Unità, 22 aprile 1974.
[15] Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 99.
[16] Il traffico di armi era diretto in Congo e faceva capo a un genovese, ex confidente dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Di tutto questo, però, non c’era traccia nel procedimento istruito da Sossi a carico di Renzo Traverso, Giuseppe Lantieri, Walter Bonafini, Carlo Piccardo e Ferdinando Alessi, imputati di «traffico clandestino di armi». Uno degli imputati aveva ricevuto 3 mitra Mab, ufficialmente inservibili, dal capo dell’ufficio politico della questura, Umberto Catalano, per «incastrare» alcuni componenti della banda XXII Ottobre. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dopo la sua liberazione Sossi parlò sibillinamente di quell’indagine: «Ho solo tentato di condurla». 
[17] Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 95.
[18] Settegiorni, 5 maggio 1974.
[19] Epoca, 1 giugno 1974.
[20] Citato da Cantore, Rossella, Valentini, Dall’interno della guerriglia, cit., p. 83.
[21] Cfr. Gianni Flamini, Il partito del golpe, cit., vol. III, tomo II, p. 537.
[22] Al processo nel quale Sossi aveva sostenuto la pubblica accusa Mario Rossi fu condannato all’ergastolo; Giuseppe Battaglia a 32 anni e 2 mesi; Augusto Viel a 24 anni e 4 mesi; Rinaldo Fiorani a 25 anni e 4 mesi; Silvio Malagoli a 16 anni; Gino Piccardo a 17 anni e 2 mesi; Cesare Maino a 15 anni e 8 mesi e Aldo De Scisciolo a 10 anni e 4 mesi.
[23] Il colonnello dei carabinieri Tito Dallaglio comandava il controspionaggio della Liguria; il capitano Saraceno era il suo vice.
[24] Gente, 6 giugno 1974.
[25] Cfr. Franceschini, Mara, Renato e io, cit., p. 99.
[26] Settegiorni, 12 maggio 1974.
[27] Panorama, 16 maggio 1974.
[28] Epoca, 1 giugno 1974.
[29] Comunicato numero 6 delle Br pubblicato su Paese Sera del 19 maggio 1974.
[30] Memoriale di Valerio Morucci, allegato agli atti del processo Moro quater.
[31] Sandro Ottolenghi, Sossi confessa, in L’Europeo, 6 giugno 1974.
[32] Il 5 settembre 1973, su segnalazione dei servizi segreti israeliani, erano stati catturati ad Ostia cinque terroristi arabi che avevano progettato di abbattere con un razzo un aereo della EL AL in partenza da Fiumicino. Il 17 novembre i cinque erano stati condannati a cinque anni di carcere e subito rilasciati su cauzione. Due di loro vennero poi riportati in Libia, via Malta, a bordo dell’aereo Argo 16. l’operazione era stata affidata al capitano del Sid Antonio Labruna.
[33] La Stampa del 29 maggio 1974.
[34] Relazione sulla documentazione rinvenuta in via Monte Nevoso, in Commissione Stragi, p. 106.
[35] Sandro Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
[36] Corriere della sera, 28 maggio 1974.
[37] Mario Sossi, Nella prigione del popolo, Milano, Editoriale Nuova, p. 59.
[38] Corriere della sera, 28 maggio 1974.
[39] La Stampa, 29 maggio 1974.
[40] S. Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
[41] L’Espresso, 19 maggio 1974.
[42] S. Ottolenghi, Sossi confessa, cit.