Il giudizio di Gordon Poole su Hiroshima e Nagasaki


Leggendo l’interessante libro del prof. Gordon Poole NAZIONE GUERRIERA – Il militarismo nella cultura degli Stati Uniti d’America[1], ho trovato un importante passaggio (pp. 78-81) sulle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, che propongo a seguire. Il giudizio di Poole  costituisce un’integrazione ai post
Fu necessaria Hiroshima?: http://andreacarancini.blogspot.com/2008/02/fu-necessaria-hiroshima.html
e Un articolo da ricordare: Le menzogne di Hiroshima sono le menzogne di oggi:
http://andreacarancini.blogspot.com/2008/09/un-articolo-da-ricordare.html  
(le note 2 e 3 sono quelle originali del testo di Poole, i grassetti nel testo sono miei).

Il periodo di buoni rapporti fra l’USA, la Gran Bre­tagna e l’URSS si interruppe bruscamente il 12 aprile 1945 con la morte di Roosevelt. Quella morte fu uno shock per l’America: egli era stato presidente degli Stati Uniti ininterrottamente sin dal 1933. [...].  

Il vicepresidente Harry Truman assunse per legge la presidenza e in poco tempo diede una sterzata conservatrice alla politica estera statunitense, specie nei confronti dell’alleato sovietico. Del partito democratico come Roosevelt, Truman era però conservatore ed antisovietico. Sosteneva, e forse sinceramente credeva, come molti americani condizionati dalla retorica patriottica, che lo sbarco in Normandia fosse stato il momento decisivo per la sconfitta della Germania, che il “Lend Lease” fosse stata la salvezza dei russi. Diversamente da Roosevelt, Truman non dava grande importanza o valore al contributo sovietico alla vittoria. 

La svolta a destra di Truman era appoggiata dal governo britannico, da tempo insofferente alla disponibilità di Roosevelt nei confronti dell’alleato sovietico. Alla svolta politica degli Alleati Stalin si oppose fermamente, e la dura prova di forza da Truman promossa per l’Europa fallì sostanzialmente, imponendo al governo americano una più sobria riflessione sulle diret­tive di politica estera. Dietro consiglio del Ministro della Difesa Stimson, l’amministrazione Truman decise di rimandare lo scontro diplomatico frontale con l’URSS fino a quando gli USA non avessero qualche carta in più da giocare, e cioè fino a quando non avesse la bomba atomica in esclusiva da far pesare sul piatto della bilan­cia nelle discussioni con la controparte.

Infatti, la nuova politica trumaniana si coglie,  magari con sorpresa e forse con sgomento, soprattutto nella conduzione della guerra contro il Giappone. Contrariamente agli accordi precedentemente presi, agli USA non conveniva più che i russi intervenissero nella guerra contro il Giappone. Gli americani erano ormai sicuri di vincere, grazie anche alla nuova arma segreta, vicinissima ad essere pronta per l’uso. 

Si sarebbe potuto benissimo, per risparmiare ulteriori sofferenze al popolo giapponese, intavolare negoziati che, sicuramente, sarebbero sfociati in un accordo di pace. Invece, nella logica della “pragmatica” politica estera statunitense, conveniva togliere all’URSS ogni base per rivendicare una presenza attiva nell’Oriente. Poiché (secondo gli accordi con gli Alleati) i russi sarebbero entrati in guerra contro il Giappone soltanto in seguito ad un accordo russo-cinese, gli americani fecero di tutto, a livello diplomatico - per esempio con la missione di Hopkins in URSS - per ritardare tale accordo. Il ministro cinese  Sung, inviato in Russia per accordarsi con Stalin, era incaricato di favorire con ogni pretesto la tattica del rinvio, evitando di avviare negoziati definitivi in attesa che gli americani approntassero la bomba, la quale sarebbe servita per poter concludere il conflitto senza l’incombente intervento russo. Intanto, la data d’intervento dei russi in Giappone fu prevista per l’8 agosto 1945.  

La situazione per i giapponesi era disperata, oltre alle loro stesse possibilità di capirlo. I governanti sapevano, certo, anche se non lo dicevano né al popolo né ai combattenti, che la sconfitta era inevitabile; si trat­tava di evitare semmai la resa incondizionata. Ma anche in questo ragionamento, i capi nipponici dimostravano di non rendersi conto della determinazione e della fe­rocia dei nemici. I giapponesi speravano addirittura dì indurre i russi ad intercedere presso gli Stati Uniti in loro favore, per ottenere una resa meno dura. 

Si arriva, seguendo questo ragionamento, ad un’atroce conclusione: il governo USA sapeva che l’uti­lizzo della bomba atomica non era necessaria alla vitto­ria. Inoltre, l’obbiettivo che esso si prefiggeva di rag­giungere non era più di natura militare, ma politica, rivolto al futuro assetto della regione, che doveva essere a suo diretto vantaggio. Se mai fu presa in considerazione, fu subito bocciata l’ipotesi di far esplodere la bomba, esemplarmente, davanti ad osservatori giapponesi, su qualche isola o luogo disabitato (intanto si sarebbe sempre avuta la seconda bomba in riserva, in­fatti le bombe sganciate furono due, una su Hiroshima e poi l’altra su Nagasaki). Secondo Gar Alperowitz[2], il Giappone era ormai così alle strette che i capi americani ritennero opportuno sfruttare la bomba come arma di terrore per ricavarne il massimo effetto psicologico. Stimson volle che l’attacco suscitasse la più gran impressione possibile, cioè che distruggesse e uccidesse il più possibile. Egli temeva addirittura che le incursio­ni dei B29, quelle che avevano devastato Tokyo con le terrificanti bombe al fosforo[3], potessero distruggere troppo il Giappone, per cui la bomba atomica non avrebbe avuto più lo sfondo adatto per dimostrare e - aspetto importante - sperimentare la sua potenza; così egli ordinò che certe città fossero risparmiate dai bombardamenti in modo che vi rimanessero obiettivi anco­ra non danneggiati per quando la bomba fosse stata pronta.

[1] Colonnese Editore, Napoli, 2002, p. 174.
[2] Gar Arperowitz, A proposito di “atomic diplomacy”, “Giano”, 21 (settembre-dicembre 1995), pp. 25-34, dove lo studioso riprende, con nuovi documenti alla mano, un argomento che aveva già affrontato in Atomic Diplomacy: Hiroshima and Potsdam: The Use of the Atomic Bomb and the American Confrontation with Soviet Power (Londra, Secker & Warburg, 1966). Weigley, riferendosi a quest’ultimo studio, giudicava estreme le conclusioni di Alperowitz (pp. 539-540, n. 6). Il citato numero della rivista “Giano” è composto di due sezioni: 1) “1945, anno zero”; 2) “La seconda guerra mondiale: approcci e riflessioni”. Entrambe contengono interessanti saggi di approfondimento scritti da studiosi italiani e stranieri. Molto stimolante è anche il già citato libro di Filippo Gaja, Il secolo corto.
[3] L’attacco aereo contro Tokyo fu il più distruttivo della storia in termini di perdita di vite umane: morirono 83.793 persone mentre i feriti furono 40.918. circa il 25% della città fu distrutta, lasciando un milione di persone senza tetto (Weigley, p. 364).