La Cina e il Giappone, ovvero la Repubblica sovrana e l'Impero asservito

Pechinesi impegnati nel Tai chi chuan

A volte le parole non solo non sono esaustive, rispetto all’oggetto che designano, ma celano una realtà ben diversa – talora addirittura opposta – rispetto a quanto ci si aspetterebbe dal loro significato.
Per dirla in soldoni: l’apparenza inganna!
Spesso rifletto su tutto ciò quando mi capita di pensare a paesi come la Cina e il Giappone[1].
La Cina e il Giappone, ovvero due stati le cui ataviche radici storiche sono legate indissolubilmente alla nozione di Impero: il Celeste Impero cinese e l’Impero del Sol Levante giapponese.
La Cina, ovvero la Repubblica Popolare Cinese, in cui l’Imperatore non c’è più (l’ultimo, Pu Yi, abdicò nel 1912) e il Giappone, ovvero la Monarchia Costituzionale Giapponese, in cui l’Imperatore c’è ancora ...
Ma, appunto, l’apparenza inganna: mi sembra che i due giganti asiatici siano degli esempi davvero macroscopici di tale detto!
La Cina: siamo sicuri che sia solo una “Repubblica”? In proposito, avrei qualche dubbio.
Certo, a innumerevoli persone, specie in occidente, l’universo cinese evoca l’immagine di una brutale – e minacciosa per lo stesso occidente – dittatura comunista: una parte di verità c’è, in tutto ciò, ma siamo sicuri che sia tutto?
E il Giappone: siamo sicuri che sia ancora così legato alle sue – millenarie – tradizioni come appare?
Dico questo perché, anche se il titolo dell’inno nazionale del Giappone risulta essere, nella traduzione, Il Regno dell’Imperatore, il ruolo del sovrano è puramente simbolico, come stabilito dalla Costituzione del 1946[2].
Ricordiamo infatti un primo elemento che distingue, al di là delle apparenze formali, i due paesi: mentre la Cina è uscita integra, come nazione sovrana, dal secondo conflitto mondiale, il Giappone non solo è stato sconfitto ma i suoi attuali assetti politici sono il risultato della resa incondizionata imposta dagli Alleati all’Imperatore.
E allora, al di là della forma, proviamo a guardare alla sostanza delle cose. Davvero il comunismo, in Cina, ha fatto piazza pulita del glorioso passato di questa nazione? In realtà, pare che le cose non stiano esattamente così.
Scrive Aldo Giannuli nel suo libro Come funzionano i servizi segreti[3]:
“Il motivo ricorrente dell’identità storica cinese è dato dalla rivendicazione della sua millenaria civiltà (di cui si sottolinea, in ogni occasione, la sostanziale continuità)”[4].
Sembra quindi che, dietro il comunismo ci sia ancora, almeno in una certa misura, Confucio.
Non solo, pare addirittura, leggendo – nel medesimo libro – l’interessantissimo paragrafo Cina: la sfida del Drago[5], che l’attuale strategia cinese nel mondo sia tuttora ispirata a principi, come quello del “tutto-sotto-il-cielo” o quello dell’”armonia”, che risalgono a ben prima di Confucio (l’idea di armonia viene addirittura fatta risalire a tremila anni fa)!
Insomma, il pensiero politico cinese sarebbe tuttora ispirato ad un universalismo che, seppur tutt’altro che inerme e scevro di aggressività, risulta più “armonico” – armonico, in quanto tradizionalmente rispettoso delle diversità[6] - e meno invasivo di quello americano: come scrive Giannuli, la Cina
“Non si candida a sostituire gli USA come «impero globale», garante degli equilibri mondiali; non vanta alcun «eccezionalismo» e non pretende di esportare il proprio modello politico ed economico”[7].
Non sono solo parole: l’approccio, più morbido e intelligente, del governo cinese nell’estendere la propria sfera d’influenza nel mondo, rispetto all’immutabile brutalità dell’occidente, suscita da tempo le irate reazioni di quest’ultimo. Un esempio lampante di ciò lo vediamo in Africa, dove l’escalation di violenza promossa da americani, francesi e inglesi (in paesi come la Libia e la Siria, ma non solo) ha anche lo scopo di contrastare la crescita degli accordi commerciali dei paesi africani – per loro, molto più convenienti – con la Cina[8].
Ripeto, non si tratta qui di negare quegli aspetti di brutalità, totalitarismo e barbarie riscontrabili nel “continente Cina” (aspetti che comunque vanno soppesati tenendo conto di quanto siano deformanti – e interessate – le lenti conoscitive dei media occidentali) ma di esaminarli alla luce di una più vasta armonia: all’interno cioè della indispensabile funzione di contrappeso planetario esercitato dalla Cina – anche dalla Cina comunista (come del resto dalla Russia, anche da quella che fu la Russia comunista) – rispetto allo strapotere dell’Impero americano (Stati Uniti+NATO+Israele).   
Un esempio di questa armonia, di questa persistenza di un regno, al di là dei transeunti aspetti statuali, io, personalmente, la vedo nelle folle di cinesi che la mattina, prima di andare a lavorare, praticano il Tai chi, una delle tradizionali arti marziali cinesi.
La flessibilità e l’armonia di queste figurazioni – ben diverse, nello spirito dalle “attuali scene di arti marziali miste americane e giapponesi”[9] – suscitano, almeno in me,  un senso di resilienza[10].
La resilienza è un termine dalle molte sfaccettature: in psicologia, designa
“La capacità dell’uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle, e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente”[11].
Un termine, quello di resilienza, che comporta anche, come conseguenza, il concetto di durata: la forza di carattere, che ha allungato – e allunga tuttora – la vita a un numero sterminato di cinesi forse può anche spiegare la misteriosa capacità di durare, nel corso dei millenni, del Celeste Impero, nonostante la sua mancanza di omogeneità linguistica, etnica e religiosa.
Tutt’altra storia, quella del Giappone.
Che la sconfitta della seconda guerra mondiale abbia comportato una sostanziale perdita di sovranità mi sembra evidenziato, innanzitutto, dal fatto che la sua attuale Costituzione
“Fu preparata durante l'occupazione militare del Giappone da parte degli Alleati dopo la seconda guerra mondiale per sostituire il precedente sistema imperiale giapponese con una forma di democrazia liberale”[12],
come dal fatto che
“È una costituzione rigida e non sono stati apportati emendamenti dal momento della sua adozione”[13].
La conseguenza di tutto ciò è che, dalla fine della guerra, il Giappone è parte integrante dell’occidente: non solo fa parte del G8 e del G7[14], ma anche della Commissione Trilaterale[15].
Delle tre nazioni uscite sconfitte dalla guerra, il destino del Giappone mi sembra analogo a quello della Germania: impetuosa crescita economica[16] ma, culturalmente parlando, asservimento ai valori occidentali.
La cosa interessante di questo processo di perdità di sovranità (l’Imperatore, una volta onnipotente nel proprio paese, esercita ora un ruolo “puramente cerimoniale”[17]) è che gli americani hanno scelto, per gestire la ricostruzione postbellica di questo paese, di salvare le apparenze: pur avendo organizzato un tribunale militare per perseguire i leader giapponesi per crimini di guerra, a Hirohito (e a tutti i membri della famiglia imperiale) concessero l’immunità.
Le presunte – e sottolineo presunte – colpe dell’Imperatore come capo del Giappone durante la guerra?
Sbianchettate, magicamente:
“La riuscita campagna per assolvere l'Imperatore dalle responsabilità di guerra non conobbe limiti. Hirohito non fu solo semplicemente presentato come innocente di ogni atto formale che avrebbe potuto renderlo indiziato come criminale di guerra. Egli fu trasformato in una figura quasi santa senza la minima responsabilità morale per la guerra", "con il pieno supporto del quartier generale di MacArthur, l'accusa, in effetti era come una squadra di difensori dell'imperatore"[18].
Ma regali di questo tipo hanno un prezzo e, in questo caso, il prezzo fu particolarmente salato: non solo Hirohito dovette rinunciare alla sovranità sua propria ma anche a quella – sostanziale – del proprio paese.
Fino a che punto, lo possiamo capire dal seguente passo dell’articolo DOUGLAS MacARTHUR, A MASON FOR ALL SEASONS ("Douglas MacArthur, un massone per tutte le stagioni"), di Herbert Gardiner, storico ufficiale della Gran Loggia delle Hawaii:
“Il Presidente Truman gli disse: “Voi eserciterete la vostra autorità nel modo che riterrete necessario per compiere la vostra missione. Le nostre relazioni con il Giappone non poggiano su una base contrattuale, ma sulla resa incondizionata … La nostra autorità è suprema[19]””.
E in che modo avvenne tutto ciò? Come al solito, more americano: con la (imposta) proliferazione nel paese delle logge massoniche[20]. Dallo stesso articolo apprendiamo infatti che
“Un fatto poco conosciuto è che quando divenne Capo delle Forze di Occupazione in Giappone, il Generale Mac Arthur fece del proprio meglio per promuovere la creazione della massoneria in quel paese, e vigorosamente impartì i principi dell’Arte [massonica] nei suoi rapporti con i funzionari governativi e con il popolo del Giappone. Quando M. W. Estaban Munarriz, Gran Maestro dei massoni delle Filippine, visitò il Giappone nel 1949, venne ricevuto dal Generale Mac Arthur che incoraggiò lui e gli altri massoni presenti a diffondere i principi della massoneria in Giappone[21]”.
Uno dei segni odierni che, almeno a me, appaiono più sconcertanti di questo scadimento di sovranità (ma anche di dignità nazionale), è il famoso “Premio Imperiale” giapponese, ovvero l’onorificenza che ogni anno viene consegnata ad artisti di fama mondiale: una sorta di “Nobel delle arti”, per intenderci[22]. Un premio che, rispetto al Nobel vero e proprio, ha un carattere più scopertamente politico (al di là del fatto che viene consegnato dalla Japan Art Association): la giuria è infatti composta, essenzialmente, da politici, anche se il loro ruolo attivo in politica è ormai terminato.
Che tale premio costituisca un segno della predetta perdita di sovranità mi sembra certo dal fatto che questi politici (o comunque, come nel caso del francese Pinault, riconducibili alla politica) sono quasi esclusivamente occidentali (l’unico giapponese è l’ex premier Yasuhiro Nakasone, una sorta di Andreotti nipponico): a parte Nakasone, William Luers, Lamberto Dini, François Pinault, Chris Patten e Klaus-Dieter Lehmann.
Da questo punto di vista mi sembrano eloquenti anche i nomi dei consiglieri, sia pure onorari: Jacques Chirac, David Rockfeller, David Rockfeller Jr., Helmut Schmidt, Richard von Weizsäcker ...
Insomma, il Premio sarà pure “imperiale” ma la corte è quella dei Rockfeller: in sostanza, una passerella mondana della Commissione Trilaterale.
Suppongo, data la qualifica di “onorari” data ai predetti consiglieri, che i nomi da premiare vengano in realtà suggeriti alla giuria dalla Japan Art Association.
E però, anche da un punto di vista formale, le perplessità rimangono: a parte l’Imperatore, ridotto a fare il maestro di cerimonie, che competenza ha – a questi livelli, poi! – un Lamberto Dini in fatto di pittura, scultura, architettura, musica, cinema e teatro?
Cosa direbbero gli svedesi se i Nobel venissero assegnati, invece che dalle Accademie Reali Svedesi[23] (che pure non sono esenti da ombre[24]), che so, da Giulio Andreotti e da Tony Blair?
Possibile che un paese con le tradizioni culturali del Giappone non avesse degli accademici in grado di assegnare in proprio premi del genere?
Oltretutto, a leggere la presenza, nella giuria del Premio Imperiale, di personaggi come Chirac e Pinault, le perplessità (eufemismo) aumentano: il multimiliardario francese Pinault, che tra i propri (molti) amici annovera proprio Chirac[25], è anche proprietario della casa d’aste Christies, di Palazzo Grassi a Venezia, oltre a essere, come scrive Wikipedia, “un importante collezionista di arte moderna”: a parte l’inglorioso finale di carriera di Chirac, coinvolto in un giro di mazzette[26], che garanzie di indipendenza può offrire un Pinault nel suo giudizio sugli artisti premiati?
Come si vede, il potere dell’occidente, anche nelle sue politiche culturali, non solo è arrogante ma assai poco elegante …
E tutto ciò, forse, chiama in causa anche gli artisti premiati: tutti nomi di chiarissima fama, per carità, ma si rendono – anche lontanamente – conto, costoro, del coefficiente di imperialismo occidentale di una tale istituzione?
Quella della consapevolezza politica dell’artista è una vecchia questione, fonte in passato di giudizi spesso ingenerosi, ma certi palcoscenici sono troppo smaccati per non riportarla d’attualità: si continua a tirare in ballo un direttore come Furtwängler[27] per la sua (presunta) collusione con il nazionalsocialismo[28] ma, a quanto pare, gli artisti di fama mondiale, oggi, non hanno problemi di sorta a ricevere premi da un potere che negli ultimi decenni ci ha fatto vedere ogni orrore, quanto a guerre e a stragi planetarie.
Non voglio essere anch’io ingeneroso nei confronti di personaggi artisticamente non solo meritevoli ma impagabili –come Maurizio Pollini o come Claudio Abbado – ma vedo anche qui, incombente, il doppiopesismo: in ogni caso, vedere associati questi grandi nomi a Lamberto Dini e compagnia non può non far misurare quanto, oggettivamente, sia lontana l’epoca in cui proprio Pollini stigmatizzava i bombardamenti americani in Vietnam (nonostante che il pianista milanese non abbia abiurato quella sua antica presa di posizione)![29]
Viene in mente, al di là della buona fede dei premiati – che non ho nessuna difficoltà a presumere – la sinistra massima di Giorgio Steimetz (l’autore di “Questo è Cefis”): “Chi tocca il Principe avrà del piombo; chi non lo tocca avrà dell’oro”.
Domanda (maliziosa): chissà se i vincitori degli ultimi due anni sarebbero stati premiati se avessero contestato, per esempio, i bombardamenti NATO contro la Libia!
E quindi il messaggio sembra proprio essere: cari artisti, se ci tenete agli allori non vi mettete a contestare il sistema!
Ma se gli artisti – specialmente quelli celebri e di alto livello – continueranno ad accettare di buon grado non solo il Potere (iniziatico) ma le sue strategie culturali, per usare un termine che abbiamo appreso da Maurizio Blondet, si ritroveranno sempre più relegati nel loro (antico) ruolo di “artisti di corte”, quello da cui si erano – più o meno, e con gran fatica – emancipati nel corso degli ultimi tre secoli. 

Lamberto Dini (a destra) giudice del Premio Imperiale


[1] Dico paesi, anche se la stessa definizione di “paese”, rispetto al “continente Cina” è riduttiva: http://www.tuttocina.it/editoria/il-continente-cina.htm
[2] Vedi alla voce Wikipedia, l’ordinamento dello stato: http://it.wikipedia.org/wiki/Giappone
[3] Ponte alle Grazie, Milano, 2009.
[4] Ivi, p. 272.
[5] Ivi, pp. 263-275.
[6] A molti, tutto ciò sembrerà poco credibile, pensando alla questione tibetana ma le cose non sono così semplici: soprattutto non sono come appaiono dai resoconti dei media occidentali. Per sincerarsene, suggerirei, ad esempio,  la lettura del libro Antico Tibet, nuova Cina (Luni Editrice, Firenze-Milano, 2006) di un’esperta come Alexandra David-Néel. Cito da p. 8: “Cos’è accaduto in Tibet? Nulla che non sia già accaduto altre volte nel corso della sua storia, perciò non parleremo di occupazione del Tibet, perché la parola più giusta è rioccupazione”...
[7] Ivi, p. 268.
[8] Vedi in proposito, La guerra in Mali e l’Agenda di Africom: obbiettivo Cina: http://www.voltairenet.org/mot2299.html?lang=it
[11] Ibidem.
[13] Ibidem.
[16] All’Italia, non è stata permessa neppure la crescita economica. Vedi, in proposito, il volume di Marco Pivato Il miracolo scippato: http://www.donzelli.it/libro/2231
[18] http://it.wikipedia.org/wiki/Giappone (vedi il paragrafo “Giappone moderno”).
[19] http://www.calodges.org/ncrl/MACARTHU.htm (vedi il paragrafo “THE AMERICAN SHOGUN”, lo shogun americano).
[20] Come era avvenuto nel 1898, al termine della guerra ispano-americana, nelle Filippine (vedi l’articolo Roberto De Mattei eminenza grigia di Gianfranco Fini: http://www.kelebekler.com/occ/demattei.htm ) e come avverrà, dopo il 1945, anche in Italia, vedi al riguardo Ferruccio Pinotti, FRATELLI D’ITALIA, BUR, Milano 2007, p. 88: “nell’aprile del 1960 arrivano nel nostro Paese gli esponenti della massoneria americana Luther A. Smith e George E. Bushnell, per tentare la riunificazione delle varie osservanze massoniche sotto l’influenza diretta di quelle statunitensi … Così, il 7 luglio 1960, si svolge a Roma una cerimonia durante la quale il ministro delle Finanze Trabucchi riconsegna Palazzo Giustiniani, sequestrato durante il fascismo, alla massoneria del Grande Oriente d’Italia”.
[21]  http://www.calodges.org/ncrl/MACARTHU.htm (vedi il paragrafo “Promoting the Craft”, promuovere l’Arte).
[24] Alla giuria del Nobel il Nobel degli intrallazzi: http://www.ilgiornale.it/news/giuria-nobel-nobel-degli-intrallazzi.html