Maurizio Pollini, il Premio Imperiale e la morte di Moro

Maurizio Pollini

È giusto che gli artisti ricevano premi da capi di stato che hanno le mani sporche di sangue?
La domanda, almeno da parte mia, non è retorica: mi rendo conto che vivere in società talvolta è complicato ma, su questo punto, la stampa politicamente corretta non ha dubbi: no, no e poi no.
E come si devono comportare allora gli artisti quando le mani in questione sono quelle di capi di stato occidentali, che mai e poi mai la stampa politicamente corretta associa a quelle pratiche sanguinarie attribuite invece, a volontà, a quei capi di stato non asserviti all’occidente?
Domande che mi sono tornate in mente nei giorni scorsi ripensando al Premio Imperiale, fiore all’occhiello non solo di artisti di caratura mondiale ma anche di politici di caratura mondialista.
Nel post La Cina e il Giappone, ovvero la Repubblica sovrana e l’Impero asservito:
http://andreacarancini.blogspot.it/2013/03/la-cina-e-il-giappone-ovvero-la.html
avevo già, tra le altre cose, espresso dubbi sull’opportunità, da parte dei detti artisti, di vedersi associati non solo a dubbi personaggi ma anche all’imperialismo culturale occidentale di cui quel premio è espressione.
Nello scrivere quel pezzo, mi ero infatti imbattuto in una vecchia intervista di Pollini al Corriere della sera in cui il maestro milanese disse:
“… L' artista ha, come tutti, una responsabilita' politica, sull' ecologia, la sovrappopolazione, la poverta' , il contrasto fra mondo sviluppato e paesi in via di sviluppo. Ero, e resto, un uomo della sinistra democratica, che ha gioito della fine dello stalinismo, ma che attende ancora la verita' sulla storia oscura d' Italia, sulle stragi, da piazza Fontana in poi, sulla fine di Moro, sul terrorismo"”[1].
Quell’intervista era del 1995. Da allora, in realtà, la verità sulla “storia oscura” dell’Italia è emersa sempre più.
Certo, dal punto di vista meramente istituzionale quella storia ancora non è emersa (ed è forse proprio al versante istituzionale che Pollini all’epoca chiedeva quel contributo di verità): stiamo parlando di un ceto politico che basa la propria sopravvivenza proprio sulla feroce collusione con quel torbido passato.
Ma dal punto di vista di certe inchieste giudiziarie (peraltro ferocemente boicottate dall'interno della stessa magistratura) e di certe inchieste giornalistiche (talvolta boicottate dalla stessa stampa mainstream) molte cose sono venute fuori, finalmente.
In particolare, proprio sulla fine di Moro è uscito due anni fa il libro di Cereghino e Fasanella IL GOLPE INGLESE – Da Matteotti a Moro: le prove della guerra segreta per il controllo del petrolio e dell’Italia[2] che permette, sulla base dei documenti recentemente desecretati dagli archivi londinesi, di capire il vero significato di quella morte (cito dalla quarta di copertina):
“AZIONE A SOSTEGNO DI UN COLPO DI STATO O DI UNA DIVERSA AZIONE SOVVERSIVA … SI RACCOMANDA DI TENERNE CONTO SIA A LONDRA SIA NEL CORSO DEGLI INCONTRI CON GLI AMERICANI, I TEDESCHI E I FRANCESI”.
Memorandum segreto del Foreign Office (6 maggio 1976) per impedire l’ingresso del PCI nel governo italiano
Il sequestro e l’omicidio di Moro furono appunto quella “diversa azione sovversiva”.


La vicenda è ricostruita negli ultimi due capitoli del libro: 1976. Diario segreto di un anno vissuto pericolosamente e L’ultimo atto della guerra segreta; tutto ciò, proprio sulla base dei memorandum e dei rapporti diplomatici d’epoca desecretati negli anni scorsi.
Nonché di un documento consegnato agli autori da Francesco Cossiga due anni prima della sua morte (“Guardi – disse al cronista – non ci sono misteri da svelare, solo cose che non si potevano dire…”)[3].
Quello che finalmente è emerso è:
“…Il ruolo della Nato, della sua intelligence e della sua rete clandestina Stay Behind (in Italia conosciuta come Gladio) durante il sequestro. Un ruolo cruciale, decisivo. Che di fatto esautorava le autorità italiane, affidando la gestione dell’intera vicenda, sia su piano militare che su quello politico, a “unità speciali” di Stay Behind, in quel periodo coordinata da un direttorio di cui facevano parte Gran Bretagna, Francia, Usa e Germania. E dal quale era esclusa l’Italia”[4].
La motivazione dell’eliminazione di Moro? Nella sintesi dei due autori,
“Moro era l’espressione di quella parte del ceto politico democristiano – e dell’impreditoria di Stato ad esso legata – più autenticamente “nazionale”. Che aveva, cioè, un progetto di modernizzazione del paese e del suo sistema politico-economico basato sul superamento delle due “anomalie” italiane del secondo dopoguerra: la condizione di sudditanza rispetto alle altre nazioni dell’Occidente e la presenza del più forte partito comunista del mondo democratico”[5].

La strage di via Fani

E ciò, agli occhi della “comunità internazionale” dell’epoca era intollerabile.
Per dare un’idea dell’ostilità da cui era circondato Moro, a livello atlantico, negli anni prossimi alla morte, il libro rievoca l’episodio del vertice di Puerto Rico (giugno 1976) in cui i capi di governo di Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Germania si incontrarono a pranzo all’insaputa di Moro e Rumor, che pure partecipavano al vertice, per poter liberamente intrigare contro l’Italia[6].
Ma perché ricordo tutto ciò? Perché, sorpresa, tra i capi di governo, delle quattro potenze dell’epoca, ostili a Moro (e all’autonomia politica dell’Italia) troviamo anche il tedesco Helmut Schmidt, proprio uno dei futuri consiglieri (sia pure onorari) del Premio Imperiale, quel premio di cui Pollini è stato insignito nel 2010[7].
Il nome di Schmidt, nel libro di Cereghino e Fasanella, viene fuori a p. 328, come destinatario, insieme all’allora presidente francese Giscard d’Estaing, di una lettera del premier inglese Jim Callaghan, in cui il primo ministro laburista invitava i colleghi a non far trapelare nulla sul Rapporto Hibbert, vale a dire sul resoconto redatto da Reginald Hibbert, sottosegretario al Foreign Office, riguardo al vertice parigino dei quattro “Grandi” dell’8 luglio 1976, in cui si era discusso di una “Azione quadripartita sull’Italia” (questo era appunto il titolo del rapporto) per farla finita con la politica morotea. Callaghan temeva che, se il documento fosse venuto alla luce, sarebbe stato considerato dall’opinione pubblica “un’intrusione diretta negli affari di uno Stato europeo nostro alleato” (come in effetti si trattava).

Giscard d'Estaing e Helmut Schmidt negli anni '70

Certo, allora la decisione di uccidere Moro ancora non era stata presa, ma la direzione di marcia era quella.
Su Schmidt c’è un ulteriore dettaglio d’epoca, che alla luce di quanto appena detto assume una luce inquietante: il suo nome venne associato a quel “dirigente socialista tedesco” che aveva parlato a Craxi dell’eventualità di un attentato a Moro[8].
E anche l’approccio “umanitario” dello stesso Craxi alla liberazione di Moro, alla luce del tempo trascorso, sembra più presunto che reale, stando almeno a quanto afferma un protagonista dell’epoca di non comune onestà intellettuale come Alberto Franceschini:
“A chiacchiere diceva che voleva intavolare tutte le trattative del mondo, poi, quando gli offrimmo una possibilità concreta, la lasciò cadere”[9].
Del resto, Schmidt e Craxi non erano accomunati solo dalla Internazionale socialista ma anche da una – ferrea – condivisione della politica atlantista dell’epoca, quella della polemica anticomunista e degli euromissili.
Anticomunismo e atlantismo che, a quanto pare, furono cause non remote anche degli omicidi di uomini della “sinistra democratica” (per usare l’espressione impiegata a suo tempo da Maurizio Pollini) come Pio La Torre e Piersanti Mattarella …
Immagino che al momento della conferimento del Premio Imperiale, Pollini abbia stretto, tra le altre, anche la mano di Schmidt.
Certo, tutte queste cose, nel 2010, il maestro milanese ancora non poteva saperle. Ma adesso, volendo, può (e con lui, almeno tutti gli artisti italiani insigniti come lui) …
 
 

[3] Ivi, p. 337.
[4] Grassetti miei. Il brano citato si trova a p. 337.
[5] Ivi, p. 339.
[6] Ivi, p. 325.
[9] Alberto Franceschini, CHE COSA SONO LE BR, BUR, Milano 2007, pp. 172-173.